In questo articolo affrontiamo il tema della Responsabilità Sociale delle Imprese (RSI) e l’importanza dell’Etica del Profitto.
Ci confrontiamo con diverse visioni del capitalismo e dell’obiettivo imprenditoriale, in un contesto storico-politico europeo e, prevalentemente, italiano, ove la grande influenza del Vaticano ha trattenuto le derive capitalistiche e ci ha abituati a pensare alla funzione sociale del capitale anche come driver del benessere; il quale non rappresenta la conseguenza dell’obiettivo imprenditoriale ma, al contrario, si serve dell’obiettivo imprenditoriale per generarsi e diffondersi tra tutte le parti che costituiscono l’architettura socio-economica dell’impresa.
Non bisogna abbassare la guardia, è fondamentale continuare a riconoscere e premiare le aziende che adottano comportamenti virtuosi, nel bene della comunità e delle generazioni future.
La Responsabilità Sociale e le due evoluzioni del Capitalismo: Imprenditorialità Sociale vs. Capitalismo Manageriale
L’interesse per una gestione etica e sostenibile ha origini negli anni ’70 quando si iniziano ad affrontare temi di responsabilità sociale in molti contesti. La Responsabilità Sociale d’Impresa si è guadagnata un ruolo di primordine in materia politico istituzionale ed oggi il concetto di Responsabilità Sociale ha subito una forte diffusione e apprezzamento.
Ciò non toglie che vi siano ancora realtà che faticano a coglierne il valore e non sono disposte ad abbandonare il tradizionale sistema di gestione, secondo il quale l’obiettivo primario è quello di ricavare il massimo profitto nel più breve tempo possibile.
In buona sostanza, non volendo negarne la valenza né prendere le difese del capitalismo, ci limitiamo a constatare che probabilmente oggi non esiste un solo tipo di capitalismo, ma almeno due con continue evoluzioni.
Il primo può essere definito “capitalismo imprenditoriale sociale”, che è proprio degli imprenditori che hanno forte la coscienza della responsabilità sociale dell’impresa. Esiste poi il “capitalismo manageriale” che si è fuso con quello finanziario, generando la grande crisi che è iniziata nel 2007/2008.
Il primo capitalismo si riferisce ad un imprenditore come homo faber che guarda al bene e alla sostenibilità dell’impresa nel lungo periodo, a favore di tutti gli stakeholder (dipendenti, comunità locali, istituzioni locali, clienti, fornitori, ambiente, azionisti).
Il secondo tipo di capitalismo ha invece una visione di breve periodo e mira alla massimizzazione del profitto. È la visione di una finanza “cervello dell’economia” che comanda tutto e tutti. Contro questo tipo di capitalismo si è più volte espresso Papa Francesco con il suo no ad un denaro che governa invece di servire.
Il capitalismo manageriale poggia sulla figura del manager, homo fabricatus nelle scuole di direzione aziendale di tutto il mondo. Il manager è uno specialista, mentre l’imprenditore è un generalista che ha la capacità di vedere le grandi traiettorie dello sviluppo.
In una visione evolutiva del capitalismo, il manager può essere visto come il collaboratore principale dell’imprenditore sociale, e a quest’ultimo l’individuazione delle strategie aziendali nel lungo periodo. Il manager le deve attuare.
L’Etica del Profitto nel rapporto tra etica ed impresa
La prossima fase del capitalismo potrebbe essere proprio questa, come sostengono Porter e Kramer in un famoso articolo del 2011 quando parlano di creazione di valore condiviso. Non tutto il capitalismo conosce solo la filantropia che significa compiere dei gesti di carità (le briciole) con i profitti dell’impresa, leciti o illeciti. Esiste anche l’impresa eticamente responsabile nel lungo periodo, con un’etica che non è esterna all’impresa ma interna, riguardando i suoi processi organizzativi e gestionali.
Troviamo questa visione in Giuseppe Toniolo che discusse proprio su questi temi la sua dissertazione di laurea all’Università di Padova alla fine dell’Ottocento.
Lo dice in termini chiari ed efficaci Papa Benedetto XVI in sua intervista del 2009: “Mi sembra realmente visibile, oggi, che l’etica non è qualcosa di esteriore all’economia, la quale come una tecnica potrebbe funzionare da sé, ma è un principio interiore dell’economia, la quale non funziona se non tiene conto dei valori umani della solidarietà, delle responsabilità reciproche e se non integra l’etica nella costruzione dell’economia stessa: è la grande sfida di questo momento”.
Sempre ricordando il pensiero di Toniolo: la massima espressione dell’etica è il bene comune, che è bene di tutti e di ciascuno. E il bene comune è l’obiettivo finale della Dottrina Sociale della Chiesa, realizzato attraverso la declinazione dei grandi valori dello sviluppo, della solidarietà, della sussidiarietà, della destinazione universale dei beni.
E veniamo al punto riguardante il profitto e la sua funzione.
La massimizzazione del profitto porta solo in casi rari all’efficienza economica e al benessere generale. Lo ha dimostrato il Premio Nobel per l’Economia J. Stiglitz, perché i mercati non sono omogenei ed esistono asimmetrie informative.
Ma il giusto profitto è necessario per lo sviluppo e il bene comune.
Nella Centesimus annus del 1991, Giovanni Paolo II afferma che “Quando un’azienda produce profitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati”. Ma aggiunge: “È possibile che i conti economici siano in ordine ed insieme che gli uomini, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell’azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità”. E ancora, sul capitalismo Giovanni Paolo II afferma. “Se con capitalismo si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di economia d’impresa, o di economia di mercato, o semplicemente di economia libera. Ma se con capitalismo si intende un sistema in cui la libertà nel settore dell’economia non è inquadrato in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale e la consideri come una particolare dimensione di questa libertà, il cui centro è etico e religioso, allora la risposta è decisamente negativa”.
Sul tema del rapporto tra etica ed impresa e della discriminante del profitto, appare interessante ricordare anche le stimolanti considerazioni di Benedetto XVI nella Caritas in veritate: “Considerando le tematiche relative al rapporto tra impresa ed etica, nonché l’evoluzione che il sistema produttivo sta compiendo, sembra che la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate al profitto (profit) e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit) non sia più in grado di dar conto completo della realtà, né di orientare efficacemente il futuro. Non si tratta solo di un terzo settore, ma di una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare tonalità umane e sociali”.
Definire la Responsabilità Sociale d’Impresa
Negli ultimi anni le iniziative in materia di Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI in breve) sono aumentate notevolmente dando il via a vari progetti aventi come obiettivo la creazione di modelli di gestione appositamente studiati.
Tali iniziative hanno portato alla realizzazione del Green Paper nel 2001, e della Comunicazione della Commissione Europea nel 2002. A livello internazionale un forte contributo è stato dato da organizzazioni come l’ONU, che attraverso l’iniziativa del Global Compact, alla quale hanno aderito molte grandi imprese, ha facilitato a diffondere il verbo dello sviluppo sostenibile e della difesa dei diritti umani.
Queste e molte altre iniziative hanno contribuito ad influenzare i comportamenti di molte imprese le quali, non solo si impegnano in attività sociali ma sempre più spesso decidono di renderlo noto nelle loro comunicazioni, arrivando perfino a costruire la loro immagine sociale (corporate identity) su modelli di responsabilità ed etica del profitto.
La Responsabilità Sociale d’Impresa è considerata uno strumento che permette di rafforzare il modello sociale europeo e realizzare una società più competitiva e nel corso degli anni ne sono state fornite molte definizioni.
Riteniamo che la sintesi di tutte possa essere racchiusa nella seguente, ove per RSI si intende: “Un modello di governance allargata, in base al quale chi governa l’impresa ha responsabilità che si estendono dall’osservanza dei doveri fiduciari nei riguardi della proprietà ad analoghi doveri fiduciari nei riguardi in generale di tutti gli stakeholder”. Come si evince dalla definizione, un’impresa che si affida ad una governance che persegue obiettivi di responsabilità sociale, deve mirare alla soddisfazione degli interessi di molti soggetti e non solo di quelli al vertice di comando.
Sviluppo Sostenibile: Bilanciare Sostenibilità Sociale e Ambientale
Il concetto di RSI è quindi estensivo o finanche contrapposto alla nozione classica di responsabilità d’Impresa, secondo la quale lo scopo primario dell’impresa è la mera generazione di profitto. A quest’ultimo concetto infatti si aggiungono pertanto i principi di “sviluppo sostenibile” e “gestione etica”.
Quando parliamo di sviluppo sostenibile dobbiamo considerare sia una sostenibilità sociale, che ambientale. La sostenibilità sociale si basa sulla qualità dei rapporti sociali e fa riferimento in particolar modo alla disuguaglianza distributiva dei redditi e alla povertà. La disuguaglianza economica tra Paesi è andata via via aumentando nel corso dei secoli, anche se negli ultimi anni gli ottimisti hanno riscontrato una leggera diminuzione dei poveri nel Terzo Mondo. Questa rivelazione risulta quindi essere compatibile con la sostenibilità dello sviluppo. La lotta alla povertà non deve essere una questione solamente etica, ma anche economica, dato che contribuisce ad un ingiustificato spreco di risorse potenziali.
Per quanto riguarda la sostenibilità ambientale invece, i fattori che la determinano sono sostanzialmente due: l’inquinamento, con il conseguente deterioramento qualitativo dell’ambiente e l’esaurimento delle fonti energetiche non rinnovabili. Il modello energetico su cui ci basiamo oggi è molto instabile e non è sufficiente a permettere uno sviluppo sostenibile, anzi potrebbe mettere a repentaglio lo sviluppo dell’economia mondiale.
Si diffonde in questo modo una visione alternativa dell’impresa. Essa deve assumere, infatti, nuovi ruoli che non si limitano più al rispetto dei soli obblighi giuridici, ma anche sociali e ambientali.
Strumenti per una Gestione Etica
Da un punto di vista pratico, per quanto attiene alla gestione etica di cui abbiamo accennato, essa si riferisce all’insieme delle dinamiche interne che l’Impresa attua per rispondere a problemi che non impattano soltanto su aspetti “intangibili” dell’Organizzazione, quali l’immagine, la reputazione, le relazioni, bensì più direttamente sul bilancio economico o addirittura sulla business continuity:
– situazioni di corruzione diffusa e crisi generale di immagine;
– discrezionalità, abuso di autorità e slealtà nelle relazioni di delega;
– interruzione dell’attività per violazione di leggi o regolamenti;
– reputazione dei manager.
Indipendentemente dalle leggi e regolamenti utili a prevenire comportamenti colposi o dolosi diametralmente opposti ad una gestione etica delle Imprese, sempre più spesso assistiamo all’adozione da parte di queste ultime di strumenti necessari a “codificare” e “condividere” principi e valori che servono a diffondere la cultura dell’etica tra gli stakeholders ed a trasmettere ai propri clienti un’immagine responsabile ed eticamente corretta dell’Organizzazione.
Tali strumenti si dividono sostanzialmente in tre tipologie:
- strumenti strategici (carta dei valori, codice etico, esplicitazione della missione);
- strumenti operativi di relazione (social auditing e social rating, documenti di rendicontazione, iniziative di responsabilità);
- strumenti operativi di supporto (sistemi di rilevazione delle performance aziendali, formazione del personale, gestione del patrimonio intellettuale, standard utilizzabili).
Il Codice Etico
Tra tutti gli strumenti, quello a nostro avviso più diffuso e probabilmente più efficace in termini di trasparenza e trasferimento del messaggio dall’interno all’esterno dell’Organizzazione è senza dubbio il Codice Etico, un documento che dichiara i diritti, i doveri e le responsabilità dell’impresa nei confronti di tutti i suoi stakeholders.
La sua pubblicazione è complementare a quella del Bilancio Sociale, ed è stato utilizzato in primis dalle imprese profit, per evitare e tutelarsi allo stesso tempo da comportamenti scorretti da parte dei loro dipendenti.
Il codice etico è uno strumento che ha avuto un’elevata diffusione nel settore privato e nelle cooperative, dove il suo utilizzo può aiutare le imprese a testimoniare la loro buona fede e a ottenere abbuoni sulle sanzioni, mentre non è stato altrettanto ben accolto nel Terzo Settore.
Sono materia di oggetto: le condizioni di lavoro, i rapporti con gli stakeholder interni ed esterni, la protezione ambientale, la corruzione, la trasparenza delle informazioni e la tassazione.
Il codice etico non ha una valenza giuridica. Tuttavia è parte integrante del contratto sociale con tutte le Parti interessate e per questo motivo le Imprese farebbero bene a considerare il suo contenuto nei processi decisionali, nella redazione di procedure interne che riguardano i rapporti funzionali e gerarchici, le relazioni con i fornitori e con le Autorità di Vigilanza, ferme restando le peculiarità e le differenze, ben diverse da impresa a impresa sulla base degli accordi e impegni presi nei confronti dei propri collaboratori.
Si ritiene che questo strumento inizierà ad assolvere alle sue funzioni e ad avere valenza strategica solo quando il vertice aziendale, l’unico con questa autorità, lo approverà, manifestando in questo modo volontà di utilizzarlo. Dopo che è stato approvato dovrà essere adeguatamente comunicato attraverso un’apposita rete comunicativa aziendale, in modo che tutti i collaboratori interni ed esterni siano obbligati a rispettarlo, trasformando in questo modo il codice da un atto volontario ad una clausola restrittiva.
Adottare un codice etico risulta, quindi, relativamente facile, il difficile è farlo rispettare e verificare che sia rispettato. In Italia, a differenza degli altri stati come ad esempio gli Stati Uniti, la mancanza di una cultura del “controllo sociale” ha portato a trascurare la fase di monitoraggio. I cittadini non hanno ancora interiorizzato il senso civico di denunciare chi viola le leggi dello Stato, per paura di essere additati come “controparti” dal resto della comunità o nei casi più gravi di subire delle ripercussioni.
In conclusione
il percorso verso un’economia che non solo cerca il profitto ma contribuisce anche al bene comune e al progresso sociale implica una trasformazione culturale nelle imprese.
Il Codice Etico emerge come uno strumento chiave per promuovere trasparenza e responsabilità, evidenziando l’importanza di non solo adottare, ma anche far rispettare, principi etici all’interno e all’esterno dell’organizzazione.
Autore: R. Grattacaso, redazione FIRMA